Motivando la sentenza

Alla fine la montagna ha partorito il topolino.

Un lungo processo di primo grado, durato un anno con decine di udienze e decine di testimoni, tecnici e non, ha prodotto una motivazione particolarmente scarna se confrontata con quelle dei processi mediatici di pari durata degli ultimi anni.

Centocinquantatre pagine che dovrebbero contenere la verità su di un delitto che ha visto indagini lunghe, complesse, e costose, come pochi altri.

Sicuramente essa pretende di stabilire una verità giudiziaria, che questa abbia poi anche qualche parentela con quella storica è un altro discorso.

D’altra parte la relativamente succinta motivazione fa quello che deve fare, e lo fa piuttosto bene, una volta che si accettino gli assiomi che essa stabilisce.

In effetti quello dell’omicidio di Yara Gambirasio può essere letto e ricostruito come un caso molto semplice: non c’è alcun bisogno di elefantiache motivazioni (come per il caso Scazzi) che cuciano assieme una miriade di tempistiche e di testimonianze, alcune delle quali pure oniriche, senza il supporto di alcuna concreta prova scientifica.

Il caso Gambirasio è semplicissimo, una volta che si prenda per buon quel DNA nucleare attribuito all’imputato, che si trovi qualche giustificazione più o meno credibile (almeno in termini di probabilità) per l’assenza del relativo mitocondriale, che si aggiunga tanto per far scena, a mo’ di parco condimento, qualche elemento indiziario che senza DNA sarebbe assolutamente inutile (fibre, polveri, microsfere e ricerche sul pc) ed infine che si ignori o si trascuri con un’alzata di spalle tutto quello che stonerebbe con la facile e semplice verità giudiziaria così felicemente trovata.

Paradossalmente, però, questa è una sentenza essenzialmente onesta, almeno in un certo senso.

E’ onesta perché dice una verità sostanziale: noi condanniamo perché c’è quel DNA nucleare.

Non sappiamo come sia veramente andata, non pretendiamo di rispondere ad alcuni dubbi o di far luce su aree grigie (DNA della Brena, Hacking Team, tanto per fare qualche esempio), vi diciamo semplicemente che noi condanniamo perché c’è quel DNA.

E tutto il resto è noia.

La Corte d’Assise presieduta dalla giudice Bertoja è talmente innamorata di quel DNA nucleare da commettere addirittura quello che per me è un autentico errore giuridico, ovvero classificare tale DNA come prova diretta (non indiziaria) della colpevolezza di Bossetti.

Ma ne discuteremo dettagliatamente più avanti, come discuteremo tutto il contenuto di questa motivazione, che se non altro, rispetto a tante altre, è caratterizzata da un linguaggio abbastanza semplice, che ne facilita la lettura.

Nel corso dell’esposizione utilizzerò talvolta il nome della Presidente della Corte, Antonella Bertoja, come sinonimo della motivazione e dei giudicanti nel loro insieme.

Tre mesi in quel campo

La motivazione afferma che Yara Gambirasio fu aggredita e morì nella sera/notte del 26/27 novembre 2010 in quel campo di Chignolo ove fu ritrovata e da cui non fu mai spostata, né ivi trasportata in un secondo tempo.

La prima obiezione su questo punto che la Corte si premura di respingere è quella relativa all’improbabilità che Yara, attivamente cercata per mesi, sia potuta rimanere così a lungo in quel campo senza essere vista da nessuno, né da terra, né dal cielo.

La risposta è piuttosto semplice (pag.28):

“semplicemente perché non era visibile da una distanza superiore ad un metro.”

Affermazione basata, pare di capire, sulla testimonianza dell’aeromodellista scopritore del cadavere, Ilario Scotti, che (sempre pag.28)

“Si era addentrato tra le sterpaglie, aveva rintracciato l’aereo, lo aveva raccolto e nel tornare indietro si era imbattuto nel cadavere, del quale non si era accorto nel percorso di andata, perché mimetizzato tra il terriccio e le sterpaglie. Nonostante fosse ancora chiaro, il cadavere non era visibile ad una distanza superiore ad un metro. Compreso che si trattava di un corpo umano, aveva telefonato al 113, i cui operatori gli avevano chiesto di rimanere sul posto fino al loro arrivo. Non sopportando la vista del corpo, si era allontanato di qualche metro ed il cadavere era subito uscito dalla sua visuale, tanto che si era visto costretto a ricercarlo nel timore che la polizia lo prendesse per pazzo.”

Sarà sempre stato così per tre mesi?

Forse le foto scattate nell’ambito dell’indagine sull’uccisione di Eddy Castillo, avvenuta il 16 gennaio 2011 a breve distanza da dove venne ritrovata Yara, avrebbero potuto essere di qualche aiuto nel rispondere a questa domanda, ma purtroppo la relativa documentazione non è stata ammessa negli atti processuali.

Non pertinente.

E per quanto riguarda le ricerche dall’alto con gli elicotteri?

Pronta arriva la risposta (pag. 29):

“Il secondo DVD contiene delle riprese dall’alto, […] che chiariscono, aldilà delle citate testimonianze, perché né le squadre della protezione civile, né gli elicotteristi che, per quanto riferito dal dott. Bonafini, avevano sorvolato il campo nei tre mesi intercorsi tra la sparizione e il rinvenimento abbiano trovato il cadavere: semplicemente perché non era visibile.”

Come mi piacerebbe vederle queste riprese dall’alto, tanto per capire l’altezza del sorvolo, l’angolo, le condizioni di luce e altre cosette del genere: non che uno non si fidi, però alle volte le motivazioni “stiracchiano” un po’ la realtà pur di sostenere le proprie conclusioni.

Tuttavia gli argomenti spesi dalla Bertoja per giustificare la conclusione sulla permanenza di Yara nel campo di Chignolo non finiscono qui, anzi i principali sono basati sul rapporto autoptico della Cattaneo e su perizie botaniche ed entomologiche.

C’è una lunga descrizione dello stato del cadavere sui cui dettagli possiamo sorvolare tranne che per due punti che desidero che il lettore tenga presenti (pag. 31):

“I visceri erano mal leggibili, anche se meglio conservati di quanto ci si potesse attendere.”

“Gli organi genitali e l’imene erano intatti.”

La prima affermazione ha più che altro un valore suggestivo circa la possibilità che il corpo sia stato per qualche tempo in un luogo con condizioni diverse da quel campo, mentre la seconda è importante, perché ci dice che le condizioni del corpo permettono di escludere positivamente una violenza sessuale, e non semplicemente di affermare che non è possibile provarla, come talvolta si è letto.

Per quanto riguarda le lesioni da taglio e punta e taglio (pag. 33):

“La lesione al torace era superficialissima. Le lesioni da taglio ai polsi e al ginocchio e la lesione a mandorla sotto la mandibola erano abbastanza profonde da aver attinto il tessuto scheletrico. La lesione al collo, pur sdoppiandosi a sinistra e pur andando da lato a lato della gola, aveva intaccato la trachea ma non, se non superficialmente, la carotide e non aveva prodotto sanguinamenti o stravasi di sangue in trachea tali da causare asfissia. Nessuna di esse era mortale, non avendo cagionato un’emorragia e non avendo attinto vasi importanti o organi vitali.”

Ma allora Yara è morta di freddo?

In parte sì, essendo per la sentenza la più probabile causa di morte (pag. 34) “la combinazione tra le ferite sopra descritte e la permanenza in un luogo a bassissima temperatura.”

E’ tuttavia interessante, per la discussione di ipotesi e scenari alternativi a quello preferito dalla sentenza, che a pagina 37 si affermi che “non potrebbe, invece, escludersi, seppure più improbabile in virtù degli indizi di prolungata agonia, un’asfissia da soffocamento o strozzamento, che potrebbe non aver lasciato segni apprezzabili a tre mesi di distanza.”

Interessante, molto interessante, è la questione dell’epoca della morte, così la chiama la sentenza, perché essa è stata (pag. 37-38) “stimata attraverso l’analisi del contenuto gastrico, non essendo utilizzabili, visto lo stato del cadavere, altri metodi.”

E cosa è stato trovato nel contenuto gastrico?

Una foglia di rosmarino, residue bucce di piselli, amidi e fibre carnee, secondo la sentenza a pagina 38.

Ma cosa aveva mangiato Yara nel suo ultimo pasto certo, secondo la testimonianza di sua madre?

Ebbene non c’è un’unica risposta: avrebbe detto carne con rosmarino e piselli alla professoressa Cattaneo, mentre in aula ha detto pesce e piselli.

La dottoressa Ranalletta, anatomopatologa della difesa, ha fatto notare che (pag. 38) “la madre della vittima sarebbe stata interrogata sul punto oltre tre mesi dopo la scomparsa e, dunque, troppo tardi per potersi fidare del suo ricordo e potrebbe essere stata suggestionata dalle domande troppo precise della prof. Cattaneo, con la conseguenza che non vi sarebbe alcuna certezza in merito alla composizione […] dell’ultimo pasto di Yara.”

Questa è una questione fondamentale, ben al di là della differenza di poche ore tra le due consulenti nella stima dell’ora della morte.

Questa è una carta che la difesa non ha mai compiutamente giocato (vi è un poco chiaro riferimento all’inizio della nota 47 a pagina 39, ma è pressoché certo che l’argomento non sia stato presentato in maniera estesa), ma se anche la composizione dell’ultimo pasto di Yara è incerta, nulla esclude che quanto ritrovato nel suo contenuto gastrico non vi sia arrivato qualche settimana dopo la sua scomparsa, nel contesto di un sequestro.

E poi, dopotutto, piselli e rosmarino non sono davvero ingredienti rari, né è impossibile che ad una ragazzina sequestrata si chieda cosa sua madre le dà di solito da mangiare, tanto per tenerla tranquilla.

Ma, appunto, questa carta la difesa non se l’è giocata e quindi la Bertoja ha buon gioco ad affermare che Yara Gambirasio è morta tra la sera del 26 e le prime ore del 27 novembre 2010.

Ma dove?

Secondo la motivazione (pagina 39) “dalle fotografie allegate al verbale di sopralluogo e dagli accertamenti eseguiti in sede di esame autoptico si ricavano plurimi elementi che consentono di ritenere provato che il decesso sia intervenuto nel campo di Chignolo e che il cadavere sia rimasto lì nei tre mesi intercorsi tra a scomparsa ed il rinvenimento.”

Quindi piena adesione alla vulgata accusatoria.

Quali sono questi elementi?

Una caviglia parzialmente coperta e avviluppata da fusti di rovo che crescono in quel campo (anche se non è chiaro dal testo della motivazione se tali fusti fossero radicati o meno nel terreno), una mano che stringe un ciuffo di steli e foglie che crescono in quel campo (ma certamente, come anche i suddetti rovi, non solo lì), l’impronta impressa sul terreno e l’impregnamento del medesimo da parte dei liquidi putrefattivi (che però sicuramente non garantiscono una permanenza per 90 giorni pieni) e poi la presenza sugli abiti di svariati semi e spine che certamente cresceranno anche in quel campo, ma certamente non solo lì.

Tutto ciò può permettere di affermare che le spoglie della giovane Gambirasio sono sicuramente rimaste per un po’ in quel campo, ma se vogliamo dare una misura di quel “po’”, cosa ci dice la scienza?

A pagina 40 si afferma che la perizia botanica consentirebbe, dalla presenza di germogli di Epilobium attorno al cadavere e di soli semi al di sotto di esso, di “stimare il periodo minimo di permanenza del corpo nel campo in venticinque-trenta giorni.”

Che sono circa un terzo dell’intervallo da coprire …

Che poi una foglia ancora turgida di Solidago gigantea sia stata “verosimilmente conservata dall’autunno dalla testa della vittima” mi sembra un po’ strano da far coesistere con tre mesi di esposizione ai liquidi di putrefazione.

Passando poi alla perizia entomologica (pagina 41), la sentenza afferma che alcune larve sarebbero indicative di un’esposizione del cadavere di due-tre mesi, mentre alcune indicherebbero addirittura un tempo di decomposizione di tre mesi e oltre.

Verrebbe da chiedersi qual’è il margine di errore di tali stime, visto che sicuramente Yara non era morta da più di tre mesi all’atto del suo ritrovamento.

In quanto poi all’esame geologico non è che sia davvero di grande aiuto, visto che (pag. 41) “otto elementi su venti del terriccio grattato via dagli interstizi delle suole delle scarpe della vittima erano statisticamente identici al suolo circostante, nove statisticamente diversi ma con valori medi molto simili, mentre cromo, zinco e sodio avevano una concentrazione più elevata.”

Insomma poteva ben trattarsi del terreno di un altro campo.

In merito al famoso ciuffo di arbusti impugnato dalla mano destra e che sarebbe stato strappato in uno spasmo agonico, oltre naturalmente a crescere anche in altri campi, c’è da chiedersi se non possa essere stato infilato a bella posta.

E lo stesso potrebbe chiedersi per tante foglie e spine sotto la testa o accanto ad essa e financo per le larve: tutto è falsificabile per chi sa cosa i periti andranno a cercare.

Ma comunque tutta la questione lascia abbastanza il tempo che trova, visto che a un certo punto, a proposito della corificazione, altra grande area grigia dell’autopsia, si legge questo bel passaggio in sentenza (pagina 44):

“Secondo la dott.ssa Ranalletta, la corificazione sarebbe tipica degli ambienti umidi e chiusi. 

Secondo la prof. Cattaneo, sarebbe caratteristica degli ambienti semplicemente umidi, che potrebbero essere i più vari.”

Insomma tot capitae tot sententiae e verrebbe da chiedersi quale sarebbe il valore predittivo di certe scienze, se tanto si trova sempre una versione che conferma le conclusioni della sentenza, senza che peraltro si abbia il coraggio di smentire apertamente quella opposta.

Così pure il fatto che il braccio sinistro della vittima presenti un’area corificata ed una no, nettamente separate, è ammesso essere una “peculiarità” (pagina 44), ma poi si sentenzia (in tutti i sensi) che “dedurre da questo che il corpo sia stato lasciato nudo per un po’ con il braccio solo parzialmente coperto e poi rivestito di tutto punto […] è un esercizio speculativo privo di aderenza con tutti gli altri dati che si ricavano dall’autopsia.”

Questo modo di ragionare presenta preoccupanti elementi di circolarità: si esclude qualcosa che va a confliggere con un determinata rappresentazione degli eventi proprio perché esso va contro tale rappresentazione, che in tal modo non può che essere confermata senza variazioni.

Ovvero, in altri termini, il quadro probatorio non è mai contraddittorio perché ogni possibile elemento di prova che presenti contraddizioni viene messo da parte perché non coerente con “il resto”, cioè con la visione che si vuole affermare.

Insomma, sempre lo stesso risultato deve venire fuori e non possiamo che prendere atto che quello voluto dalla Bertoja è che quel cadavere sia rimasto in quel campo per tre mesi filati, dalla morte al ritrovamento.

Un ultima nota riguarda (pagina 48) la diffusa contaminazione di polveri ricche di calcio in alcune lesioni e la presenza su scarpe ed indumenti di sferette metalliche di pochi micrometri di diametro: le une e le altre ritorneranno a perseguitare Bossetti sotto forma di indizi.

Nientemeno.

Passiamo ora alle cose serie, ovvero, ovviamente, il DNA.

I reperti e la loro analisi

Ciò che veramente interessa sono i profili genetici rilevati sulla vittima e sui suoi abiti (pag. 54-55):

“Su diciassette dei tamponi, sull’apparecchio, sulla maglietta, sul reggiseno e sulle scarpe era rinvenuto il solo profilo genotipico della vittima; sulla felpa in tredici punti veniva trovato il profilo genotipico della vittima e in uno (prelievo 28-19 nelle adiacenze della estremità superiore sinistra della zip) un profilo genotipico misto in cui era presente e ben interpretabile il profilo della vittima ma vi era anche il profilo non interpretabile di altro contributore; sul salva slip non erano rilevati profili genetici.”

Fin qui nulla di straordinario: un profilo non interpretabile su di una zip purtroppo non ci dice niente.

In seguito si aggiunge però qualcosa (pag. 55):

“Il 12 aprile 2011, invece, su una manica del giubbotto di Yara era isolato un profilo genotipico misto, la cui componente maggioritaria era perfettamente sovrapponibile al profilo dell’istruttrice di ginnastica ritmica Silvia Brena.
Silvia Brena e tutti i suoi familiari erano sentiti e intercettati e sottoposti ad una serrata indagine onde ricostruire i loro movimenti della sera del 26 novembre 2010, senza che emergessero elementi di sospetto a loro carico.
Del resto, il suo stretto rapporto con la vittima era perfettamente in grado di spiegare perché il suo DNA si trovasse sulla manica del giubbotto della ragazzina.

 

Allora, se le fonti difensive da cui ho avuto l’informazione sono corrette ed il profilo rilevato sulla manica del giubbotto presentava picchi di 8000 RFU, ciò non è spiegabile come semplice DNA da trasferimento o “touch DNA”, specialmente se rimasto esposto agli elementi per 90 giorni.

Senza nemmeno considerare, poi, che la Brena ha testimoniato di non aver avuto alcun contatto con Yara il giorno della sua scomparsa e che, a quanto pare, Yara indossò quel giubbotto solo quel giorno, essendole stato prestato da una cugina.

Non metto assolutamente in dubbio l’estraneità ai fatti della Brena (e dei suoi famigliari), della quale sono peraltro pienamente convinto; quello che voglio sottolineare è che qui la Bertoja si trova di fronte ad una prima grossa anomalia rispetto alla ricostruzione prescelta e la aggira con una giustificazione che è, ad essere gentili, scientificamente molto poco attendibile.

Messa rapidamente da parte la traccia della Brena, chiaramente stonante con la semplice ricostruzione accusatoria, la sentenza fa finalmente entrare in campo la prova regina vera e propria, ovvero la traccia attribuita inizialmente a Ignoto 1 (pag. 55).

“Finché, a maggio 2011, il RIS comunicava che sul campione 31 prelevato dagli slip di Yara era stato estrapolato un profilo genetico maschile utile per eventuali confronti, che da quel momento era convenzionalmente denominato IGNOTO 1, profilo molto più ricco e, soprattutto, collocato in luogo estremamente più significativo rispetto a quello di Brena Silvia sulla manica del giubbotto.”

Sul fatto che il profilo di Ignoto 1 sia “molto più ricco” di quello della Brena (a meno che non si intenda impropriamente che si sono prelevati più campioni in più posti), permettetemi di continuare a dubitare fino ad estensiva documentazione contraria.

Che tale profilo sia collocato in luogo “estremamente” più significativo rispetto a quello della traccia della Brena, non toglie che quest’ultima resta un’anomalia senza vere spiegazioni in sentenza.

Tornando alla traccia “regina” (pag. 55 e seguenti):

“Gli slip venivano sottoposti ad una nuova serie di campionature a griglia (onde, come meglio si dirà, approfondire l’analisi della traccia e ottenere ulteriori riscontri), che consentivano di estrapolare il medesimo profilo da sedici diverse campionature “, a cui, in luglio [2011], si aggiungevano, quelle sui pantaloni (in due delle quali compariva in mistura il medesimo profilo).”

“Il secondo studio, condotto sui campioni 31-G19 e 31-G20, da un lato, e 32-3, dall’altro, si concentrava, invece, sul DNA mitocondriale, che veniva all’uopo estrapolato dai predetti campioni dal col. Lago in collaborazione con la prof. Pilli dell’Università di Firenze, specialista in archeologia forense.

Dal campione 31-G19, che in sede di estrapolazione del DNA nucleare aveva consentito d’individuare una componente maggioritaria maschile (Ignoto 1) e una componente minoritaria femminile (Yara), emergeva un’unica sequenza identica a quella estratta dal campione di confronto contenente unicamente il DNA nucleare di Yara; dal campione 31-G20, che, dal punto di vista dell’esame del DNA nucleare, presentava l’unico profilo di Ignoto 1, emergevano due sequenze, una maggioritaria, corrispondente a quella del campione di confronto di Yara, e una minoritaria, differente da quella della vittima.”

Cerchiamo di meglio esplicitare quanto scrive la Bertoja: dal campione dove si trovava il DNA nucleare sia di Ignoto 1 che di Yara si otteneva un solo profilo mitocondriale identico a quello ottenuto da un campione contenente il solo DNA nucleare di Yara (anche se non detto esplicitamente, pare intendersi con ciò che questo sia il profilo mitocondriale di Yara), mentre dal campione che, dal punto di vista del DNA nucleare, presentava solo il profilo di Ignoto 1 (presumibilmente intendendosi questo come unico leggibile), si ottenevano due profili mitocondriali, uno corrispondente a quello della vittima e uno ignoto.

 

“Entrambi i profili genetici mitocondriali, quello di Yara dei campioni 32-3, 31-G19 e 31-G20 nella sua componente maggioritaria e quello del campione 31-G20 nella sua componente minoritaria, individuavano aplogruppi attualmente diffusi in Europa e in Asia nella c.d. ‘mezzaluna fertile’.”

E’ questo un passaggio piuttosto importante, e da tenere presente nel prosieguo dell’analisi della motivazione, perché esso implica che il profilo mitocondriale “ignoto” trovato sulla traccia 31-G20 era leggibile ed interpretabile.

Segue poi tutta la storia della caccia ad Ignoto 1, che abbiamo già trattato altrove, ma qui ci interessa annotare alcuni passaggi a pagina 58:

“l’aplotipo Y [di Damiano Guerinoni] risultava identico a quello della traccia estratta dal RIS [ovvero a quello di Ignoto1]”

“giacché l’aplotipo Y si trasmette uguale di generazione in generazione ed è lo stesso per tutti i discendenti maschi di un determinato capostipite, gli inquirenti risalivano, allora […] a Pierpaolo Guerinoni, che presentava un profilo di DNA nucleare quasi identico a quello di Ignoto 1 (i due profili si distinguono per il solo marcatore TH01).”

Leggendo alla lettera la sentenza, presumendo che le autrici sappiano quello che stanno scrivendo, e non abbiano confuso aplotipi Y e profili autosomici, ci troviamo nella quasi incredibile situazione di avere due profili con un solo marcatore diverso su ventuno.

Andando per un attimo avanti nella sentenza fino a pagina 78, possiamo citare le parole del dottor Portera, consulente di parte civile: “Il 31-G20 e il 31-G16 hanno permesso di confermare la presenza di ventuno regioni STR, che sono state utilizzate dai colleghi di Pavia per dare compatibilità con il DNA dell’odierno imputato. Una compatibilità con ordine di grandezza di dieci alla meno ventisette, che significa che per avere un soggetto che possa avere lo stesso DNA di Ignoto 1 o dell’imputato sarebbe necessaria una popolazione mondiale di due miliardi di miliardi di miliardi di soggetti nella popolazione.”

Ora, sebbene la probabilità che due profili autosomici coincidano su 20 marcatori non è così bassa come quella che la coincidenza tra i profili di Ignoto 1 e di Bossetti sia casuale, essa è comunque astronomicamente piccola (negli USA Pierpaolo Guerinoni sarebbe stato arrestato come Ignoto1, perché i profili del database CODIS hanno meno di 20 marcatori) e la cosa deve far meditare sul valore concreto di certe probabilità apparentemente irrisorie, nel contesto di questo caso.

Tornando alla (adesso) tanto vituperata ricerca a tappeto sui profili mitocondriali della madre di Ignoto 1, illo tempore definita un unicum a livello mondiale, è interessante notare come, nella nota 85 a pagina 60, la sentenza liquidi come “un mistero” il pasticciaccio brutto dei 532 profili “delle potenziali amanti di Giuseppe Benedetto Guerinoni” confrontati con il mitocondriale di Yara.

Svariati altri prelievi effettuati su abiti od oggetti ritrovati assieme al cadavere hanno permesso di rilevare anche (pag. 63) “dal pollice e dal medio di un guanto i profili denominati UOMO 1 e DONNA 1”.

Sono altresì stati effettuati tamponi subungueali, genitali, anali ed orali sulla vittima e su altri capi di abbigliamento (compreso il reggiseno trovato slacciato), che hanno restituito unicamente il profilo della vittima o nessun profilo.

In conclusione, i profili non appartenenti alla vittima sono quelli di Ignoto 1 su slip e leggins, quello di Silvia Brena sul polsino destro del giubbotto e quelli di UOMO 1 e DONNA 1 su di un guanto che la vittima aveva in tasca. La ricerca del DNA mitocondriale su peli ritrovati sull’abbigliamento della vittima ha inoltre fornito sei ulteriori profili sconosciuti.

Le analisi genetiche

La sentenza liquida rapidamente come irrilevanti (pag. 67) i profili mitocondriali sconosciuti rilevati sui peli, quelli nucleari (di UOMO 1 e DONNA 1) e quello della Brena.

Esclusione condivisibile, tranne quella del profilo della Brena, per le ragioni già spiegate.

Invece “il valore probatorio del rinvenimento sugli slip della vittima, in corrispondenza del taglio e della lesione a forma di J sul gluteo, del DNA di un estraneo è, all’evidenza, completamente diverso”.

E su questo possiamo anche essere d’accordo.

Inoltre “non sono in discussione, perché confermati dalla stessa consulente della difesa prof. Sara Gino, il rapporto di filiazione tra Giuseppe Benedetto Guerinoni e Massimo Giuseppe Bossetti e la corrispondenza tra il profilo del DNA nucleare denominato Ignoto 1 e il profilo del DNA nucleare dell’imputato, peraltro, evidente dal confronto tra i marcatori autosomici.”

E allora cos’è in discussione?

 

“Ciò che la difesa contesta sono I’utilizzabilità e l’affidabilità dal punto di vista scientifico del profilo di Ignoto 1.”

Mettendo da parte le eccezioni formali in merito all’utilizzabilità (tutte respinte), in merito alle quali lo scrivente non ha conoscenze sufficienti per esprimersi, passiamo alle obiezioni di carattere prettamente scientifico.

“Entrando nello specifico della tipizzazione del profilo genetico denominato Ignoto 1, il DNA nucleare di Ignoto 1 è stato identificato dal RIS tramite ventiquattro (compreso il sesso) marcatori STR autosomici contro i tredici fissati dagli standard internazionali e i quindici-sedici usualmente ritenuti necessari in ambito forense per esprimere un giudizio di identità, cui devono aggiungersi dodici marcatori del cromosoma X e sedici marcatori del cromosoma Y, per un totale di cinquantuno marcatori.” (pag. 72)

Tale profilo è stato ottenuto utilizzando più kit su più tracce prelevate da diversi punti sugli slip di Yara, estensivamente citati in sentenza (pag. 74-75):

“[..] sul prelievo 31-G1 Ext – il primo sul quale emergeva il profilo completo di Ignoto 1 – che aveva un quantitativo di DNA totale di  2500,00 picogrammi/microlitro (1000,00 maschile) [in realtà queste sembrerebbero concentrazioni e non quantità totali], erano eseguite dodici amplificazioni (di cui tre contemporanee con il kit NGM) e una ripetizione. Sul prelievo 31-G1 Int, in cui il quantitativo di DNA totale era 31,00 picogrammi/microlitro e quello maschile 21,00, erano eseguite complessivamente quattro amplificazioni e una ripetizione. Sul 31-G2 Int, quantificato in 800,00 picogrammi/microlitro, di cui 150,00 di DNA maschile, erano eseguite una ripetizione e diciassette amplificazioni. Sui campioni 31-G13, 31-G14, 31-G15 e 31-G16 (nessuno dei quali Low Copy Number avendo un DNA totale di 300, 140, 310 e 450 picogrammi/microlitro) erano eseguite quattro amplificazioni per ciascun prelievo.
Il 31-G18, che presentava 150,00 picogrammi/microlitro di DNA totale e sul quale erano in prima battuta eseguite indagini volte a stabilire la natura della traccia, era analizzato una sola volta, perché restituiva un profilo caratterizzato da picchi nettissimi e chiaramente interpretabili e perfettamente sovrapponibile a quello del 31-G20. Il 31-G19 (290,00 picogrammi/microlitro di DNA totale e 140,00 di DNA maschile) era amplificato tre volte. 

Il campione 3 1-G20 (2000,00 di DNA totale e 1400,00 di DNA maschile) appariva chiaramente interpretabile alla prima amplificazione, ma ugualmente sottoposto con kit diversi, onde ampliare il numero dei marcatori STR, ad altre dodici tra tipizzazioni e amplificazioni e cinque ripetizioni. Il 3 1-G23 (99.00 di DNA totale e 49,00 di DNA maschile) era amplificato una sola volta, avendo restituito le componenti alleliche già riscontrate nel 31-G20. Lo stesso il 31-G24, in cui, peraltro, la quantità di DNA totale era 160,00 picogrammi/microlitro, ossia superiore alla soglia del Low Copy Number.

Il 3 1-G6, con 74,00 picogrammi/microlitro di DNA totale sotto la predetta soglia, era amplificato otto volte: i marcatori autosomici erano difficilmente interpretabili, mentre quelli del cromosoma Y, per i loci interpretabili, corrispondevano ai marcatori del cromosoma Y tipizzati nei campioni 31-G1 Est e 31-G2 Int, gli altri ove era stato esplorato detto cromosoma.

I reperti 62.3 (320,00 picogrammi/microlitro di DNA totale e 62,00 maschile) e 62.4 (410,00 di totale e 130,00 di maschile) erano tipizzati ciascuno dieci volte con due diversi kit.

In queste centoquattro tra ripetizioni e amplificazioni le componenti alleliche riconducibili a Ignoto 1 erano riscontrate dai consulenti Staiti e Gentile in settantuno analisi, negli altri casi i tracciati elettroforetici non erano univocamente interpretabili o validabili.”

I numeri riassuntivi appaiono senza dubbio impressionanti, anche se talvolta la motivazione usa i termini “amplificazione” e “ripetizione” in una maniera tale da lasciare qualche dubbio sul loro corretto impiego.

Deve essere chiaro che non si è ottenuto per settantuno volte lo stesso profilo con 21 0 24 marcatori e che la sentenza non specifica quanti marcatori vengono esaminati in ogni singola amplificazione o ripetizione che dir si voglia.

In ogni caso, quali sono le obiezioni scientifiche opposte dai genetisti della difesa alla validità di tali risultati?

A prestar fede alla sentenza, non molte (pag. 78):

“I consulenti della difesa dell’imputato hanno chiarito di non aver ripercorso le corse elettroforetiche.

La dott.ssa Gino ha riferito di non aver neppure visionato i dati grezzi.

Il dott. Capra ha spiegato di essersi limitato a controllare i tracciati elettroforetici su supporto documentale, riscontrando che in alcune analisi erano stati utilizzati polimeri scaduti, che non tutti i tracciati erano chiaramente interpretabili e che quattro controlli positivi e sei controlli negativi presentavano delle anomalie.”

 

Tra le righe, nella nota 131 a pagina 79 viene anche fatto notare che il dottor Capra non ha depositato una relazione scritta.

Sempre a prestar fede alla sentenza, tali obiezioni sarebbero di poco conto, in quanto (pag. 79):

“gli altri consulenti sentiti hanno sottolineato – non smentiti dal consulente della difesa, limitatosi ad un rilievo di metodo – che la scadenza del polimero viene fissata dalle case produttrici anche a fini commerciali (tanto è vero che esiste un sistema di rivalidazione dei polimeri volto a prolungarne il periodo di utilizzabilità), che lo spirare del termine di consumo non compromette l’analisi e, soprattutto, che l’eventuale cattivo stato di conservazione del polimero impedisce la reazione e dà luogo a un profilo non leggibile, non a un profilo diverso da quello reale”;

 

“di alcuni controlli positivi e negativi mostratigli in controesame dal Pubblico Ministero ha confermato la validità. Sulla globalità dei controlli non si è espresso, spiegando di essersi limitato a selezionarne alcuni nei quali la presenza di picchi inattesi era particolarmente evidente”;

“lo stesso dott. Capra, inoltre, ha ammesso in sede di controesame che la ripetizione delle amplificazioni variando la diluizione del campione in modo da far emergere tutti i profili è una prassi di laboratorio e che, dunque, la differente qualità dei trattati elettroforetici da lui segnalata poteva essere il risultato di una sorta di work in progress”.

In conclusione la lettura della sentenza par far capire che non sono sopravvissute al dibattimento obiezioni veramente sostanziose all’affidabilità del profilo genetico nucleare di Ignoto 1, dato che anche la questione dei “picchi extra”, o alleli soprannumerari, riguarderebbe un numero molto limitato di elettroferogrammi.

Tuttavia, come scrive la stessa Bertoja, “secondo il consulente, i dubbi maggiori sull’affidabilità dei risultati analitici deriverebbero, comunque, dalla discrasia – evidenziata dagli stessi tecnici del RiS a pag.215 della relazione del 10 dicembre 2012 – tra l’ottima qualità del profilo genetico di Ignoto 1 e i risultati non concludenti delle analisi volte a stabilire la natura della traccia e dal mancato rinvenimento del DNA mitocondriale dell’imputato.”

Sono questi infatti i veri punti focali, quantomeno come indicazione di una forte anomalia in quel DNA nucleare anche troppo perfetto.

La Bertoja non si fa un gran problema dell’impossibilità di stabilire la natura della traccia (pag. 80): i consulenti del Pubblico Ministero hanno spiegato che le analisi di genere e di specie volte a stabilire la natura della traccia sono completamente diverse da quelle genetiche e utilizzano reagenti diversi, nessuno dei quali, peraltro, in grado di offrire un grado di certezza assoluta. I kit che vengono utilizzati per l’esecuzione della diagnosi di genere e di specie sulle tracce, inoltre, si fondano sulla rilevazione della presenza di determinate proteine, enzimi o componenti cellulari, che in molti casi tendono a degradare più rapidamente rispetto al DNA, impedendo, di fatto, la diagnosi.”

Quanta acqua è passata sotto i ponti dal 2012 e da quella relazione dei RIS, nella quale essi scrivevano “pare quantomeno discutibile come ad una eventuale degradazione proteica della traccia non sia corrisposta una analoga degradazione del DNA, mentre ora, come ci informa la sentenza nella nota 133 a pagina 80, è il loro comandante, il colonnello Lago, ad affermare il contrario.

Ma, certo, nel 2012 non c’era un processo in corso.

E infatti la Bertoja conclude sul punto (pag. 81): “un simile risultato è indicativo di un certo stato di degradazione della traccia (tutt’altro che sorprendente visto il tempo in cui il cadavere è rimasto nel campo esposto alle intemperie), ma non inficia il risultato di un’analisi completamente diversa come è quella del DNA”.

Con buona pace dei dubbi manifestati dai RIS in tempi più sereni (privi dell’ansia da testimonianza) su un DNA così inattaccabile.

Venendo alla vexata quaestio del mitocondriale (o meglio, dell’assenza di quello di Bossetti nelle tracce repertate, che però ne presentano almeno un’altro, sconosciuto), non è che la Bertoja si scomponga più di tanto: si trattava di un filone di indagine secondario, addirittura sperimentale e poi, a cosa serve il mitocondriale quando si ha il nucleare, che è l’unico in grado di attribuire una traccia ad un singolo individuo?

Durante il processo si sono sprecate, da parte dei consulenti del PM, immaginifiche allegorie (come quella del telegrafo e dell’iPhone) volte a presentare le tecnologie impiegate nella profilazione mitocondriale come parenti povere ed arretrate di quelle usate nel campo del DNA nucleare, anche qui, magari, “stiracchiando” un po’ la verità (per necessità di comunicazione, è chiaro).

Tuttavia la Bertoja si fa prendere un po’ troppo dall’entusiasmo ed arriva a scrivere “il limitato utilizzo in ambito forense spiega, del resto, perché, diversamente da quanto accade per il DNA nucleare, non vi siano in commercio kit per l’estrapolazione di questo tipo di DNA”.

Uno sguardo sui siti dei maggiori produttori (come QIAGEN, ad esempio) dimostrerà al lettore che siamo in presenza di un errore materiale.

L’altra ragione principale addotta dalla sentenza per minimizzare l’importanza della cosiddetta “aporia del mitocondriale” è che (citando sempre e solo deposizioni di consulenti dell’accusa o delle parti civili, pag 83-86):

“la ricerca del DNA mitocondriale in tracce miste sia sconsigliata, potendo portare anche a false esclusioni”;

“gli studi scientifici internazionali sull’analisi del DNA mitocondriale su tracce miste sono pochissimi e in tutti si conclude nel senso che le variabili che possono incidere sono talmente elevate da sconsigliare l’analisi forense del DNA mitocondriale in tracce miste”;

“le tecniche utilizzate per l’estrazione dei due tipi di DNA, inoltre, sono diverse e, quindi, possono portare a risultati diversi, consentendo di <<vedere>> solo uno dei due tipi di DNA, anche in modo diverso a seconda del singolo contributore”;

i consulenti del Pubblico Ministero e delle parti civili hanno formulato diverse ipotesi per spiegare il mancato rinvenimento del DNA mitocondriale dell’imputato all’interno di campioni che hanno offerto un profilo genetico nucleare di ottima qualità e riconducibile con certezza a Bossetti, richiamando alcuni studi internazionali su tracce miste, ovvero evidenziando come il risultato sarebbe scontato ove il contributo dell’imputato fosse rappresentato da un fluido biologico poverissimo di mitocondri, come il liquido seminale [ovviamente non identificato come tale, ma in Italia sembra sia normalissimo non identificare mai la natura delle tracce] o, ancora, ponendo l’attenzione sulla maggior quantità di DNA mitocondriale della vittima (trovandosi la traccia su un cadavere in decomposizione), che potrebbe aver ‘coperto'[non varrebbero le stesse considerazione per il numero di nuclei?] il DNA mitocondriale dell’imputato o sulla variabilità dei fenomeni degradativi dei diversi tessuti e del DNA mitocondriale che li compone”.

Sul tema vengono cooptati anche i consulenti della difesa, con qualche distinguo:

“complessità delle analisi volte ad estrapolare il DNA mitocondriale da tracce con più contributori, complessità sulla quale tutti i consulenti concordano, compresa la prof. Gino, sul punto limitatasi a osservare che nessuna delle citate spiegazioni sarebbe pienamente convincente e che il fatto che non vi sia una spiegazione scientificamente preferibile e, dunque, certa avrebbe dovuto indurre ad ulteriori approfondimenti“.

Il che non è piccola differenza (nonostante la minimizzazione in sentenza) ed anche l’indicazione della cosa giusta da fare, se a qualcuno fosse interessato farla.

Ciò che veramente alla Bertoja preme di affermare è che “a fronte di un profilo nucleare chiaramente leggibile in numerosi elettroferogrammi […] validato da amplificazioni e ripetizioni e rinvenuto uguale a se stesso in numerosi prelievi eseguiti su due indumenti diversi, pertanto, il mancato rintraccio dell’aplotipo mitocondriale […] non è in grado di porre in dubbio la certezza dell’identificazione di Ignoto 1 nell’odierno imputato, il cui profilo nucleare, l’unico identificativo, è perfettamente sovrapponibile a quello originariamente denominato Ignoto 1.”

Insomma il mitocondriale non deve rompere le uova nel  paniere … o qualcos’altro.

Pur di sminuire quel povero disgraziato profilo mitocondriale che non corrisponde a Bossetti si arriva a scrivere che esso “era tutt’altro che univocamente interpretabile” e, addirittura (nella nota 148) , tra le righe, che il colonnello Lago avrebbe fatto meglio a nemmeno considerare tale traccia.

Questo dopo avervi attribuito l’aplogruppo R0a, piuttosto raro in Italia e avervi basato sopra un’indagine a tappeto di cui ci si era pure vantati e per la quale si è speso qualche soldo … sic transit gloria mundi 

Interessante poi la confutazione di un altra ben nota obiezione basata sull’anomalia mitocondriale, ovvero che “secondo la difesa dell’imputato, poiché il DNA mitocondriale si degrada più lentamente di quello nucleare […] quello destinato a <<scomparire>> avrebbe dovuto essere il DNA nucleare di Ignoto 1, non quello mitocondriale [… inoltre] in condizioni […] identiche per i due profili il DNA mitocondriale di Yara Gambirasio sarebbe ancora individuabile e quello dell’imputato no”.

Ecco la risposta: “in realtà, i vari consulenti hanno ben spiegato che la maggiore probabilità di rinvenire il DNA mitocondriale in reperti gravemente compromessi non dipende tanto da una maggior resistenza ai fenomeni degradativi quanto alla sua maggior diffusione (a fronte di un unico nucleo, ogni cellula ha numerosissimi mitocondri) e certamente il contributo di sangue e liquidi putrefattivi della vittima, non solo era di partenza superiore a quello costituito dal fluido biologico di Ignoto 1, ma diversamente da Ignoto 1, ha continuato ad alimentare la traccia.”

Ma questo non vale anche per i nuclei, cari signori e signore? Non avrebbe dovuto allora anche il nucleare di Ignoto 1 essere “coperto” da quello di Yara? E perché poi non ha “coperto” anche quell’altro mitocondriale sconosciuto, al quale non corrisponde nemmeno un profilo nucleare, e che quindi doveva, con ogni probabilità, essere più debole come traccia sin dall’inizio?

State attenti, che a “stiracchiare” troppo la verità, essa si spezza, e restano solo le b…riciole.

Quanto poi interessi la verità (quella storica almeno) è, involontariamente, evidenziato dalla scrollata di spalle con cui in sentenza (pag. 86) ci si libera del suggerimento della prof. Gino di effettuare ulteriori ricerche mediante lo studio dell’mRNA: passi per la sua natura sperimentale, ma scrivere in tono quasi denigratorio “utilizzato per la datazione delle tracce più che per l’identificazione di profili” è molto illuminante.

Datare quelle tracce evidentemente non interessa.

Vengono infine rapidamente esaminate e rigettate le residue obiezioni difensive in merito all’affidabilità delle analisi genetiche.

In particolare quella della contaminazione (involontaria) che, oggettivamente, nel caso in essere appare estremamente improbabile.

Tirando le somme, quindi:

“in conclusione, il profilo genetico nucleare di Ignoto 1, caratterizzato per un elevato numero di marcatori STR e verificato mediante una pluralità di analisi eseguite nel rispetto dei parametri elaborati della comunità scientifica internazionale, è assolutamente affidabile” (pag. 95);

“quanto alla riconducibilità di detto profilo all’odierno imputato, la relazione di identità – che nessun consulente ha messo in dubbio – è stata stabilita per 21 marcatori autosomici (e 17 del cromosoma Y), numero ampiamente superiore sia ai tredici internazionalmente ritenuti identificativi sia ai quindici-sedici ricorrenti nella pratica giudiziaria, con una ricorrenza statistica di 2,33 x 10-27, equivalente alla certezza.” (pag. 96).

Ricordatevi però quanto scritto più sopra in merito a Pierpaolo Guerinoni e al suo profilo.

Considerazioni molto interessanti di natura tecnica sui limiti e le manchevolezze della sentenza di primo grado riguardo alla prova genetica si possono trovare anche in questo blog .

Gli altri elementi indiziari

I testimoni

Anche se in fase di conclusioni la sentenza arriverà addirittura ad attribuire (a mio avviso erroneamente) alle tracce di Ignoto 1 il valore di una prova diretta o storica, ciononostante essa cerca anche di aggiungere alla “prova regina” qualche ulteriore elemento indiziario di sostegno o, volendo, di abbellimento.

La celeberrima querelle dei fotogrammi CCTV rappresentanti uno o più autocarri Iveco sui quali accusa e difesa si sono date aspra battaglia in merito alla corrispondenza o meno del veicolo ivi rappresentato con quello dell’imputato, è stata salomonicamente risolta dalla Corte affermando che in ogni caso di “elevata compatibilità” e non d’identità si parlerebbe, e che comunque l’imputato non ha negato di essere stato a Brembate Sopra nel tardo pomeriggio del 26 novembre 2010.

Ritenuta non attendibile, essendo impossibile escludere il rischio di suggestione mediatica della teste, la testimonianza di Alma Azzolin, la donna che aveva asserito di aver visto un uomo riconosciuto come Bossetti con una ragazza che le era sembrata Yara, in un auto in un parcheggio di un centro commerciale nel settembre 2010.

Contro l’attendibilità dell’Azzolin milita anche la completa assenza di altre testimonianze od elementi indicanti una pregressa conoscenza tra vittima ed imputato.

Sostanzialmente irrilevanti o non dirimenti anche tutte le testimonianze dei colleghi di lavoro, degli edicolanti e di svariati altri testimoni.

Le fibre

Passando ad altre potenziali prove scientifiche, hanno, per la Corte, un certo rilievo le fibre  prelevate dagli indumenti di Yara e confrontate con quelle dei sedili dell’autocarro di proprietà dell’imputato (pag. 106-110).

“Poiché sui vestiti di Yara erano state censite solo le fibre di lunghezza superiore a un millimetro, il confronto tra tutti i campioni effettuati al momento della ricezione dei reperti e le fibre dell’autocarro non era possibile. Così, l’attenzione dei consulenti si concentrava sulle undici strisce a suo tempo applicate sui leggings e sulle tredici della parte inferiore del giubbotto (per i quali la probabilità di contatto in caso di seduta era più elevata), su cui venivano isolate e analizzate ventinove fibre per morfologia e colore idonee al confronto, che presentavano <<una significativa analogia nelle proporzioni tra le abbondanze relative>>. Su ventinove fibre selezionate sui due indumenti, indistinguibili per caratteristiche morfologiche, composizione chimica e cromaticità da quelle repertate sui sedili dell’autocarro dell’imputato, infatti, due erano gialle, due turchesi, dodici blu come le fibre T3 e tredici blu come le fibre T4. Questo consentiva ai consulenti di affermare che <<pur non essendo possibile fare considerazioni circa I’univocità o la molteplicità dei trasferimenti che hanno prodotto le popolazioni di fibre censite sugli indumenti della vittima, nell’ipotesi di una provenienza unica, appare evidente una significativa analogia nelle proporzioni tra le abbondanze relative delle fibre di tipo T1, T2, T3 e T4 rispetto a quanto osservato per il tessuto del sedile dell’autocarro>>”.

“Accertamenti analoghi erano, poi, eseguiti sui tessuti dei sedili di quattro autocarri Iveco […] Il tessuto di due dei tre autocarri Iveco con il medesimo motivo di quello di Bossetti rilevava la medesima compatibilità.”

Conclusione:

“Un più elevato grado di compatibilità non avrebbe consentito di affermare che le fibre repertate sugli indumenti di Yara provenissero dai sedili dell’autocarro dell’imputato, un grado di compatibilità minore o la non corrispondenza di alcuni parametri non avrebbe consentito di escludere che Yara si fosse seduta su quei sedili, non raccogliendo fibre o raccogliendo fibre poi disperse.

Resta il dato della compatibilità in termini di composizione chimica, colore e abbondanze relative tra una parte delle fibre sintetiche rinvenute sugli indumenti di Yara e i sedili dell’autocarro di Massimo Giuseppe Bossetti, identici a quelli degli automezzi di molte altre persone, di cui, però, non è stato trovato il DNA.”

Ecco, appunto, senza il DNA le fibre non varrebbero niente.

I tabulati telefonici

La sentenza esordisce piuttosto ottimisticamente in merito ai tabulati (pag. 111): “Un elemento di sicuro conforto all’esito delle indagini genetiche si ricava dall’analisi dei tabulati telefonici.”

Personalmente fatico a condividerne l’entusiasmo, in quanto al netto della discussione i risultati sono i seguenti:

“il 26 novembre 2010 il telefono di Bossetti agganciava, alle 14.13, la cella di Terno d’Isola via Carbonera e, alle 17.45, la cella via Mapello via Natta settore 3, dopodiché non produceva più traffico fino all’indomani” (pag. 113);

“in sostanza sia la vittima sia l’imputato il 26 novembre 2010 hanno come ultimo aggancio Mapello via Natta sebbene ad un’ora di distanza l’uno dall’altra: Yara alle 18.49 e Bossetti alle 17.45 […] Bossetti, peraltro, abita vicino a Brembate Sopra, frequenta Brembate Sopra e non ha mai negato di essersi recato a Brembate Sopra il pomeriggio del 26 novembre 2010 e il suo cellulare aggancia la stessa cella (in un diverso settore) agganciata da quello di Yara un’ora prima rispetto alla ragazza (quando lei è sicuramente all’interno della palestra in compagnia delle istruttrici e delle altre ginnaste).” (pag.114)

Gran conclusione (pag 114):

“I dati che si ricavano dai tabulati telefonici sono, allora, che il 26 novembre 2010 l’imputato è nella zona di Brembate Sopra – Mapello e non altrove”.

 

In pratica, l’elemento di “sicuro conforto all’esito delle indagini genetiche” è dato dal fatto che i tabulati non diano un alibi a Bossetti, non dal fatto che essi costituiscano elemento indiziario in se stessi.

Le microsfere e le particelle di calce rinvenute sul cadavere

Sulle scarpe e su parte degli indumenti indossati da Yara venivano rinvenute numerose particelle metalliche di forma sferica, così come polveri di calcio sulle lesioni e sulla cute.

Le particelle, di forma perfettamente sferica, risultano di chiara origine artificiale, ovvero prodotto di una qualche attività umana, in particolare, la derivazione da lavorazioni a caldo con impiego di materiale ferroso.

Non venivano trovate sferette simili a casa dei Gambirasio o nella palestra di Brembate, ne venivano invece trovate, seppure in diversa composizione, nei campioni prelevati nel cantiere di Mapello.

“Dopo il fermo dell’imputato, il confronto veniva esteso ai sedili dell’autocarro dell’imputato, risultati, come il cantiere di Mapello, ampiamente contaminati da particelle di forma sferica costituite da leghe di ferro variamente composte (ferro, nichel e cromo, ferro e manganese, cromo e nichel).” (pag. 115)

Qual’è l’importanza di queste sferette?

“Le particelle in esame non sono diffuse nell’aria o sui mezzi di locomozione o sugli oggetti, vengono eliminate dagli indumenti con il lavaggio e non possono che derivare dal contatto con un luogo o con una persona altamente contaminati, quali cantieri e lavoratori dell’edilizia, come è appunto l’imputato, e il rinvenimento di queste particelle sugli indumenti della vittima, per quanto non individualizzante, ha dunque una sicura valenza indiziaria.” (pag. 116-117)

Aggiungo io che la precisione di un simile elemento indiziario è ampiamente discutibile, così come quella delle polveri di calcio, per le quali, d’altronde, la sentenza opera identiche valutazioni.

“Le considerazioni che precedono valgono anche per il rinvenimento di numerosissime particelle di calce sulla cute e all’interno delle ferite: anche il calcio è un elemento ubiquitario ed i lavoratori edili della provincia bergamasca migliaia, ma sulla cute dei familiari, a casa di Yara o in palestra non v’era un’analoga concentrazione di tali particelle.” (pag. 117)

Tutti elementi indiziari, insomma, che senza il DNA varrebbero quanto il due di picche con briscola a fiori.

E forse anche meno.

Le consulenze informatiche

Giusto per non dilungarsi troppo, il presunto valore indiziario ottenuto a seguito di tali consulenze consisterebbe nell’aver dimostrato che (forse) l’imputato avrebbe visionato foto e video “di contenuto pornografico” e che avrebbe compiuto ricerche all’interno di siti pornografici, tra cui anche (attenzione!) “hardteenvideos.com e alcuni siti sadomaso”.

Ommioddio!

Ma non è mica finita (pag. 118), “dato ben più rilevante, all’interno dello spazio non allocato della memoria del computer portatile Toshiba erano rinvenute tracce di attività di ricerca effettuate mediante il motore di ricerca Google con le seguenti stringhe: <<ragazzine con vagine rasate>>, <<ragazze vergini rosse>>”.

Accidenti ragazzi, questa è roba seria: già vedo il povero muratore avvolto dalle fiamme dell’inferno!

Si nota poi come un certo compiacimento in sentenza nel citare una lunga serie di presunte ricerche a sfondo sessuale compiute sui computer dell’imputato, quasi a voler instillare nel lettore un senso di oltraggio al ripetersi ossessivo di “quelle parole”.

Comunque, io non voglio entrare nella diatriba su chi abbia fatto quelle ricerche, se l’imputato, se la moglie, se il figlio maggiore, se magari siano il prodotto di automatismi dei motori di ricerca.

No, io sinceramente leggo due date in sentenza e ho altri pensieri.

“La prima, rispondente ai termini di ricerca <<ragazze vergini rosse>>, era del 27 novembre 2013 ore 23.14. La seconda, la cui query era <<ragazzine con vagine rasate>> era effettuata in data 29 maggio 2014 alle 9.55.” (pag. 118)

27 novembre 2013

29 maggio 2014

Un bel po’ di tempo dopo i fatti e non molto prima, particolarmente la seconda, dell’arresto.

Io, prima di trarre qualunque conclusione su quelle ricerche, e su tutto l’aspetto informatico del caso in generale, vorrei saperne di più sul ruolo di Hacking Team in questa faccenda.

Come la difesa ha chiesto e le è stato negato, perché non pertinente …

Le intercettazioni ambientali

La motivazione definisce addirittura “estremamente significativo” il contenuto di alcuni colloqui intercettati tra Bossetti e la moglie.

Il gran valore di tali frasi carpite dovrebbe essere che, secondo l’interpretazione che ne dà la sentenza, esse dimostrano che, contrariamente a quanto da Marita Comi sostenuto in dibattimento, “non è vero che ella non rammenta l’ora esatta in cui il marito sarebbe rientrato a casa perché sono passati quattro anni: ricorda perfettamente che quella sera l’imputato è rientrato più tardi del solito”. (pag 122)

Ebbene, sinceramente, quando leggo sentenze in grado di leggere nella mente di testi ed imputati sulla base di frasi carpite nei contesti più svariati, nelle circostanze più svariate, con operazioni di taglio chiromantico, mi viene solo voglia di girare pagina, essendo questo un esercizio che fatico ad associare al termine “giustizia”.

L’esame dell’imputato

Quanto dichiarato da Bossetti (in realtà non solo in aula, ma anche in interrogatori e colloqui con la moglie in carcere) viene riassunto in maniera si può dire fattuale, senza commenti e con un tono neutro, anche se pare di percepire tra le righe una certa incredulità di chi scrive quando la sentenza riporta (pag. 128):

“Tutto ciò che avevano riferito gli ex colleghi di lavoro in merito ai suoi rapporti con la moglie erano falsità (come quelle sostenute dagli operanti, dagli edicolanti e dai consulenti del Pubblico Ministero).”

Certamente Bossetti non si è fatto un gran favore con certe dichiarazioni alquanto “recise”, per così dire, che sono però anche il prodotto di un paio di anni di detenzione (che se ingiusta non può che essere percepita come un gravissimo torto da parte di chi la subisce) in un uomo che per ragioni culturali non ha a sua disposizione un sofisticato arsenale retorico da sfoderare.

Avranno anche ragione, dal punto di vista delle conseguenze pratiche, coloro che ritengono che l’atteggiamento battagliero e quasi aggressivo di Bossetti durante il suo esame gli abbia nuociuto non poco.

Io tuttavia ritengo che un essere umano abbia anche una dignità e che abbia il diritto di reagire, anche al di là di quanto gli converrebbe a mente fredda, quando la vede calpestata.

La valutazione del compendio probatorio

La prima frase di questo capitolo riassume al meglio, in poche stringate parole, non solo il capitolo stesso, ma l’intero processo e la sua sentenza (pag. 128):

“I risultati delle indagini genetiche illustrati nel capitolo 10 sono dirimenti.”

In effetti non si può essere più chiari e non si può che essere d’accordo: se si ritiene che quel DNA sia genuino (cioè non un prodotto di sintesi, tanto per essere chiari) e non si ritiene possibile una contaminazione volontaria per incastrare l’imputato, Bossetti non può che essere condannato.

Lo scrivente naturalmente non condivide questi assunti della Bertoja e particolarmente ritiene essere quel DNA di origine sintetica, e che l’assenza di mitocondriale sia indicazione proprio di tale origine.

Tuttavia, accedendo al punto di vista della Corte, le conclusioni sono semplici e lineari: il DNA sugli slip in prossimità del taglio a J sul gluteo è veramente prova “granitica”, alla quale gli altri elementi indiziari (fibre, sfere, calce, ricerche sul computer, le intercettazioni e le dichiarazioni dell’imputato) fanno solo da pallido contorno.

Ed in effetti questa condanna si regge tutta sul DNA, come detto sin dall’inizio ed in realtà come era chiaro sin dal giorno dell’arresto di Bossetti, perciò la Bertoja fa in fondo anche bene a non inventarsi film su cosa sia avvenuto in dettaglio quella sera: il DNA basta per condannare, inutile cercare di ricostruire l’inconoscibile.

Tengo tuttavia a precisare ancora una volta che dissento dalla valutazione fatta dalla sentenza che quel DNA costituisca prova diretta dell’azione omicidiaria da parte di Bossetti.

Elemento indiziario di altissima precisione e gravità (ritenendolo genuino) senz’altro, ma prova diretta della commissione del delitto da parte di Bossetti, nonostante l’argomentazione spesa in sentenza, proprio no.

Pur ritenendolo assolutamente genuino, quel DNA non è prova diretta della commissione del delitto da parte di Bossetti, perché (oltre agli scenari di contaminazione volontaria) Bossetti potrebbe aver trovato Yara morente in quel campo (la morte ha richiesto ore), preso da tendenze necrofile aver armeggiato per esporre gli slip e qui aver perso sangue dal naso per epistassi (se proprio il sangue dev’essere l’origine di quel DNA, ma anche qui, come in altri casi, ci si arriva per “esclusione”, non per conferma scientifica diretta) che è finito su mutandine e leggins.

Ora, che questo sia uno scenario inverosimile, astrattamente possibile in rerum natura, etc., etc., è ovvio, tuttavia tale analisi esclusiva delle ipotesi alternative è propria della valutazione della prova indiziaria: una prova diretta o storica sarebbe rappresentazione diretta del thema probandum, cioè dell’azione omicidiaria di Bossetti nei confronti della Gambirasio, senza possibilità di scenari alternativi, per quanto fantasiosi.

Certamente anche la prova diretta deve essere vagliata in merito alla sua genuinità, ma questo è un elemento ulteriore e diverso: io qui ho già presupposto (ai soli fini di questa discussione) che quel DNA sia genuino, e tuttavia esso da solo non rappresenta direttamente l’azione omicidiaria da parte di Bossetti.

Questioni di lana caprina, ovviamente, perché, come si è già detto, prendendo per buono quel DNA (ovvero DNA rilasciato dal signor Bossetti in persona ed in quel momento sul corpo di Yara Gambirasio) la condanna è inevitabile.

E la sentenza lo ribadisce ancora a pagina 139: “è la presenza del profilo genetico dell’imputato a provare la sua colpevolezza”.

Certo la sentenza un minimo di scenario lo deve fornire (pag. 144):“Yara aveva il reggiseno slacciato e gli slip tagliati e sul computer dell’imputato sono state rintracciate tracce di ricerche a carattere latamente pedopornografico, tra cui alcune sicuramente riconducibili a lui ed è, dunque, ragionevole ritenere che l’omicidio sia maturato in un contesto di avances a sfondo sessuale, verosimilmente respinte dalla ragazza, in grado di scatenare nell’imputato una reazione di violenza e sadismo di cui non aveva mai dato prova fino ad allora.”

Un DNA che presenta molti aspetti problematici (mascherati in sentenza grazie alle abbondanti citazioni delle affermazioni dei periti della pubblica accusa e delle parti civili) e delle ricerche sul computer che a loro volta saranno chiare come la luce del sole quando un’altro aspetto grigio di questo caso  (il ruolo di Hacking Team) sarà chiarito, bastano a far ritenere ordinario, addirittura banale (inserire qui l’inevitabile riferimento a Hannah Arendt) che un tranquillo padre di famiglia quarantenne, che mai prima di allora aveva dato prova di simili tendenze, agisca (pag. 147) non […] in modo incontrollato, sferrando una pluralità di fendenti, ma ha operato sul corpo della vittima per un apprezzabile lasso temporale, girandolo, alzando i vestiti e tracciando, mentre la ragazza era ancora in vita, dei tagli lineari e in parte simmetrici, in alcuni casi superficiali, in altri casi in distretti non vitali e, dunque, idonei a causare sanguinamento e dolore ma non l’immediato decesso.”

Il comportamento ed il modus operandi di un sofisticato torturatore sadico in un absolute beginner … “buona la prima!” avrebbe detto qualcuno.

La calunnia in danno di Massimo Maggioni

Alcuni forse saranno rimasti sorpresi che Massimo Bossetti sia stato assolto dall’accusa di aver calunniato Massimo Maggioni, accusandolo di aver assassinato Yara Gambirasio, al contempo usando (pag. 149) “uno straccio o un guanto intriso del suo [di Bossetti] sangue” per incastrarlo.

Un po’ sorprende perché, essendo stato Bossetti condannato per l’omicidio, evidentemente non poteva non sapere che Maggioni era innocente.

Tuttavia l’assoluzione si rivela meno sorprendente quando si legge la ragione di tale decisione: perché le accuse sono “inverosimili” e “grottesche”, ovvero assolutamente incredibili.

E poiché quello delineato da Bossetti è uno scenario di contaminazione volontaria, non è forse un caso che lo si voglia far passare per impensabile e grottesco, ben al di là dello specifico coinvolgimento del certamente innocente Maggioni.

Conclusioni personali

Questa motivazione, e la condanna che ne deriva, sono tanto solide quanto il DNA su cui integralmente si fondano: se si scardina questo crollano anche quelle.

Non penso si possa smontare quel DNA appellandosi a qualche picco in più o in meno in una piccola parte degli elettroferogrammi, non credo ci si possa aspettare nulla dalla contaminazione involontaria, non mi illudo che basti l’assenza del mitocondriale da sola.

Bisogna provare che quel DNA è sintetico e ciò può essere fatto solo mediante un test di metilazione richiesto in sede di appello come prova contraria di prova decisiva.

In mancanza di questo temo che il signor Bossetti non riassaporerà la libertà se non in tarda età.

Ingiustamente, a mio parere.